Organizzare un festival letterario in Calabria è un gesto che tocca le fondamenta del vivere insieme: la comunità, il tempo, l’immaginazione. Nei boschi della Sila, circondati da pini secolari e cieli che ancora custodiscono il silenzio, la letteratura smette di essere un evento confinato e diventa esperienza incarnata. Un festival letterario in questo contesto è un laboratorio antropologico e politico che interroga i sogni: cosa sono, a chi appartengono, come possono diventare patrimonio condiviso.
Ernst Bloch, filosofo tedesco del Novecento, ha dedicato la sua opera monumentale, Il principio speranza, all’idea che il sogno sia la forma più concreta della speranza umana. Per Bloch, i sogni a occhi aperti non sono illusioni, ma anticipazioni di futuro: ciò che ancora non esiste, ma che potrebbe essere. In questa prospettiva, leggere nei boschi, far raccontare fiabe ai bambini, recuperare le parole di chi non c’è più significa allenare la capacità collettiva di immaginare ciò che ancora non ha forma. Il sogno, in questo senso, è un atto politico: non una fuga, ma un orientamento a cui tendere.
Questa intuizione si lega a quella del sociologo Zygmunt Bauman, che ha descritto la nostra epoca come modernità liquida, caratterizzata da legami fragili, instabili, continuamente negoziati. Nel mare della precarietà contemporanea, un festival che raduna persone diverse in uno stesso luogo, per condividere parole, storie e musica, produce l’effetto opposto: radicamento. Non nel senso di chiusura, ma nel senso di un ancoraggio simbolico che restituisce coesione. È il tentativo di costruire una comunità temporanea capace di durare nella memoria, un antidoto alla frammentazione.
Émile Durkheim, padre della sociologia, sosteneva che la società si regge su forme di solidarietà che non sono naturali, ma costruite. Nei riti, nei momenti collettivi, si crea quel tessuto invisibile che tiene insieme gli individui. In Calabria, tra una lettura collettiva e una passeggiata nel bosco, avviene qualcosa di simile: si produce solidarietà simbolica, un collante sociale che va oltre la somma degli individui e li trasforma in comunità.
Questa comunità non è fatta solo di vivi. La poesia, letta ad alta voce, restituisce voce a chi non c’è più e tiene insieme passato e presente. La letteratura, come la musica, non è qui semplice ornamento, ma strumento di continuità. In Calabria, terra di partenze e di assenze, un festival che fa vivere le parole dei morti diventa anche un modo per pensare l’immortalità non come mito individuale, ma come eredità collettiva.
Hannah Arendt, filosofa politica del Novecento, ricordava che la politica nasce ogni volta che gli uomini si riuniscono a parlare e ad agire insieme. In questo senso, un festival letterario è politica senza bandiere: è la creazione di uno spazio pubblico in cui i sogni individuali si trasformano in linguaggio condiviso. Non è una celebrazione di autori, ma un’occasione per praticare comunità. La cultura, qui, smette di essere intrattenimento e diventa pratica di convivenza.
A questo quadro si aggiunge il contributo fondamentale dell’antropologo Arjun Appadurai, che ha definito l’immaginazione un fatto sociale. Non è più, come nel passato, una facoltà privata, confinata nell’intimità. Nell’epoca globale, l’immaginazione diventa collettiva, circola, plasma istituzioni, economie, politiche. Appadurai parla di capacity to aspire, la capacità di aspirare, come risorsa culturale essenziale per i gruppi sociali. Un festival che lavora sui sogni, allora, non alimenta soltanto desideri individuali, ma costruisce una capacità collettiva di aspirare: la possibilità, per una comunità, di proiettarsi oltre la propria condizione presente.
In Calabria questa dimensione è attore antropologico centrale. In un territorio segnato da spopolamento e da una narrazione nazionale che spesso la riduce a stereotipo, un festival non colma soltanto un vuoto: apre un varco. Mostra che è possibile immaginare un futuro diverso. E la scelta dei boschi non è casuale: la foresta diventa metafora della complessità, della biodiversità, della convivenza. Non un luogo da sfruttare, ma un ecosistema da abitare.
Fare cultura oggi significa, dunque, generare orizzonti. Non significa riempire agende né intrattenere, ma creare le condizioni per allungare lo sguardo, per immaginare insieme ciò che ancora non c’è. In un tempo che divora le conseguenze, la cultura è l’unico strumento che ci permette di riconnettere presente e futuro.
Per questo un festival letterario nei boschi della Sila, come Hyle Book Festival, giunto alla sua quinta edizione, è una dichiarazione politica e antropologica: che i sogni sono ancora possibili, che possono essere condivisi, che possono orientare un futuro collettivo. Bloch lo chiamava speranza, Bauman lo vedeva come ricerca di stabilità nella liquidità, Durkheim come solidarietà sociale, Arendt come spazio della politica, Appadurai come capacità di aspirare. Tutti convergono in un punto: una comunità esiste davvero solo quando riesce a sognare insieme.
Ed è proprio questo che accade, per qualche giorno, nei boschi della Sila. Le parole si intrecciano con gli alberi, i sogni diventano voce, la comunità si riconosce nella sua capacità di immaginare. È lì che la cultura rivela il suo significato più profondo: non spiegare il mondo com’è, ma aprire la possibilità di ciò che ancora non è, ma che potrebbe essere.
Foto di Mario Gentile, Federico Falvo e Ornella Martino.