Testimonianza. È una parola che ha tante accezioni. Può significare costruire prove o riconoscere il valore di qualcosa. E qui, tra i pini della Sila, se ne afferra ancor di più il senso. Ci chiediamo spesso cosa resterà di noi quando non ci saremo più. Qualcuno scriveva che la traccia è la prova non provata della presenza. La parola testimonianza, dal latino testis – “chi assiste e porta memoria” – diventa qui più che mai concreta: raccontare, ricordare, tramandare. È forse questo il cuore dell’Hyle Book Festival.
La giornata si apre con la passeggiata ecologica. Si cammina tra gli alberi raccogliendo plastica e intanto qualcuno racconta: una bottiglia che, riempita d’acqua, diventa detersivo liquido; l’ammorbidente che serviva ad ammorbidire le fibre di lana che ormai quasi nessuno usa più. Sono frammenti quotidiani che, intrecciati alle letture a voce alta, diventano anch’essi tracce, segni di un paesaggio urbano che parla ancora di noi.
Poi il festival si fa tenerezza, con i bambini e i nonni insieme nel Garden. Seduti sull’erba, leggono favole e costruiscono un tempo che ha il passo lento delle cose autentiche. È la letteratura che diventa ponte tra generazioni, patrimonio che passa di mano in mano e di voce in voce, seme che inevitabilmente attecchisce.
Nel pomeriggio arriva lo spazio dell’innovazione solidale: grazie ad Avis, i partecipanti indossano visori 3D ed entrano in mondi inaspettati. La tecnologia qui non è fine a sé stessa: è un invito a guardare la realtà con occhi diversi, a sperimentare la meraviglia come primo passo per prendersi cura dell’altro. Anche questo, in fondo, è testimonianza: immaginare insieme futuri possibili.
La commozione arriva con Mario Amelio, che non è più tra noi ma continua a parlare attraverso la voce di sua figlia. Sono le sue pagine a tornare vive attraverso i suoi libri. Nelle sue storie c’è sempre il filo dell’amicizia, la presenza costante dei quattro compagni con cui immaginava e costruiva progetti. Era il suo modo di raccontare la vita: fatta di legami, di condivisione, di cerchi che non si chiudono mai davvero. Le sue parole dimostrano che la testimonianza di una scrittura non muore con chi l’ha creata, ma resta, accesa, negli altri.
Il pomeriggio porta con sé Carmine Abate e il suo “L’olivo bianco”. Racconta di un pezzo di terra scoscesa, una timpa lasciata in eredità, e del modo in cui diventa radice e memoria. “La memoria è una luce che ha senso solo se illumina il nostro presente”, dice, e quella frase diventa bussola. Non è uno sradicato, aggiunge, ma uno che ha più radici, più sguardi. L’emigrazione, per lui, non è perdita ma vivere per addizione. L’erranza può essere positiva, se prevede il ritorno. Difendere i luoghi, proteggerli, rigenerarli: questa è la responsabilità di chi narra. Perché l’arte del racconto è sospensione.
E quando cala la sera, arriva la musica. Sul palco del Teatro Verde i Radiodervish portano il loro “Sogno Mediterraneo”. Tra lingue e culture che si intrecciano, la musica diventa anch’essa testimonianza: una traccia che unisce, che resiste, che attraversa le generazioni. Dagli spalti il pubblico ascolta e si lascia attraversare da quelle note che sembrano dire che la bellezza è ancora possibile, se la si condivide.